I miei lettori, che sono ancora tanti, nonostante io scriva su questo blog sempre più di rado, riescono ancora a commuovermi ed a rafforzare in me la convinzione che, senza di loro, senza di voi, sarebbe stato ancor più difficile affrontare la mia tragedia. Scrivere, raccontare, mi ha fatto bene. Oggi la mia vita è talmente strampalata, senza alcun punto fisso, senza nessuna certezza, neppur minima, senza obiettivi concreti,senza punti di arrivo, da rendermi difficile fare quello che mi darebbe gioia e quello che, in tanti, continuate a chiedermi: scrivere. Il mio umore è così cangiante: oggi a terra, quando mi sembra tutto impossibile, domani speranzoso, quando riesco ad immaginare che riusciremo a farcela, noi Aquilani. Insomma, amici cari, è dura. Sempre più dura. Ho, dopo più di due anni, ritegno a tediarvi ancora con le mie paure, che sono quelle di tutti noi sopravvissuti, senza casa, senza riferimenti, senza più radici. E ho quasi vergogna nel ripetermi, nel dire che qui, se possibile,è ancora peggio di due anni fa. Abbiamo bisogno di credere in qualcosa, di alimentare la speranza, ma tutto sembra impedircelo, dall'inettitudine di chi ci governa, allo squallido spettacolo dell'Italietta dell'orticello di casa. Fino a chi del nostro dramma sta facendo profitto. "Gli aquilani sono colti, orgogliosi, testardi. Qualcuno li chiama gli snob dell’Abruzzo: non li abbiamo mai visti piegati, vinti. Sono gente di montagna, forgiata da un passato di bellezza, cultura e potere, che negli ultimi due anni ha vissuto lunghi mesi nelle tendopoli facendo la fila per mangiare e andare in bagno, ha perso amici, parenti, conoscenti, gente che in moltissimi casi non ha più un lavoro né una casa ma deve continuare a pagare il mutuo di quella che aveva appena comprato". Queste le parole che Daria Bignardi affida al suo blog, dopo essere stata all'Aquila, per la prima volta, nei giorni scorsi. Ha saputo fare un'analisi lucida, in questo post http://barbablog.vanityfair.it/2011/06/05/riavro-la-casa-il-lavoro-la-chiesa-la-vita/. Le parole degli altri, oggi, sono più efficaci delle nostre, che viviamo la tragedia da mesi e che abbiamo quasi timore di continuare a ripeterci. Ci diamo da fare, tanto. E la fatica ci rende nervosi ed intransigenti, anche fra di noi che lottiamo e lavoriamo tanto da quel 6 aprile. Vorremmo che la nostra rabbia fosse quella di tutti, ma la rassegnazione per molti è in agguato. Me ne vado via per un po', nella Sicilia che amo. Lascio una casa che tutti i giorni qualcuno mi ricorda che non è mia, pur pagando, con grande sacrificio, un fitto salatissimo, ed i miei cagnolini adorati. Voglio tentare, per tre settimane, di essere "normale". Se qualcuno mi chiederà di dove sono, dirò "vicino Roma". Sento l'esigenza di non sentirmi terremotata, di non sentirmi commiserata. O considerata ingrata. Al ritorno, lei sarà ancora qui ad attendermi: sventrata, incerottata, morente. Ancora tenacemente bellissima.sabato 11 giugno 2011
Vado
I miei lettori, che sono ancora tanti, nonostante io scriva su questo blog sempre più di rado, riescono ancora a commuovermi ed a rafforzare in me la convinzione che, senza di loro, senza di voi, sarebbe stato ancor più difficile affrontare la mia tragedia. Scrivere, raccontare, mi ha fatto bene. Oggi la mia vita è talmente strampalata, senza alcun punto fisso, senza nessuna certezza, neppur minima, senza obiettivi concreti,senza punti di arrivo, da rendermi difficile fare quello che mi darebbe gioia e quello che, in tanti, continuate a chiedermi: scrivere. Il mio umore è così cangiante: oggi a terra, quando mi sembra tutto impossibile, domani speranzoso, quando riesco ad immaginare che riusciremo a farcela, noi Aquilani. Insomma, amici cari, è dura. Sempre più dura. Ho, dopo più di due anni, ritegno a tediarvi ancora con le mie paure, che sono quelle di tutti noi sopravvissuti, senza casa, senza riferimenti, senza più radici. E ho quasi vergogna nel ripetermi, nel dire che qui, se possibile,è ancora peggio di due anni fa. Abbiamo bisogno di credere in qualcosa, di alimentare la speranza, ma tutto sembra impedircelo, dall'inettitudine di chi ci governa, allo squallido spettacolo dell'Italietta dell'orticello di casa. Fino a chi del nostro dramma sta facendo profitto. "Gli aquilani sono colti, orgogliosi, testardi. Qualcuno li chiama gli snob dell’Abruzzo: non li abbiamo mai visti piegati, vinti. Sono gente di montagna, forgiata da un passato di bellezza, cultura e potere, che negli ultimi due anni ha vissuto lunghi mesi nelle tendopoli facendo la fila per mangiare e andare in bagno, ha perso amici, parenti, conoscenti, gente che in moltissimi casi non ha più un lavoro né una casa ma deve continuare a pagare il mutuo di quella che aveva appena comprato". Queste le parole che Daria Bignardi affida al suo blog, dopo essere stata all'Aquila, per la prima volta, nei giorni scorsi. Ha saputo fare un'analisi lucida, in questo post http://barbablog.vanityfair.it/2011/06/05/riavro-la-casa-il-lavoro-la-chiesa-la-vita/. Le parole degli altri, oggi, sono più efficaci delle nostre, che viviamo la tragedia da mesi e che abbiamo quasi timore di continuare a ripeterci. Ci diamo da fare, tanto. E la fatica ci rende nervosi ed intransigenti, anche fra di noi che lottiamo e lavoriamo tanto da quel 6 aprile. Vorremmo che la nostra rabbia fosse quella di tutti, ma la rassegnazione per molti è in agguato. Me ne vado via per un po', nella Sicilia che amo. Lascio una casa che tutti i giorni qualcuno mi ricorda che non è mia, pur pagando, con grande sacrificio, un fitto salatissimo, ed i miei cagnolini adorati. Voglio tentare, per tre settimane, di essere "normale". Se qualcuno mi chiederà di dove sono, dirò "vicino Roma". Sento l'esigenza di non sentirmi terremotata, di non sentirmi commiserata. O considerata ingrata. Al ritorno, lei sarà ancora qui ad attendermi: sventrata, incerottata, morente. Ancora tenacemente bellissima.sabato 7 maggio 2011
L'orto insorto


domenica 24 aprile 2011
Buona Pasqua

E' la terza Pasqua, da quando la mia vita è cambiata. La prima, subito dopo il disastro, mi sorprese ancora incredula: era difficile rendersi conto della portata di quello che ci era accaduto. La seconda, lo scorso anno, cadeva a ridosso dei giorni della prima commemorazione. Ed avevo dentro la rabbia di un anno di totale immobilismo, di un anno di bugie e di privazione della libertà. Questa che sta arrivando mi trova stanca e ancor più disillusa. Disillusa dagli eventi, e dagli uomini. Ma l'istinto di sopravvivenza mi fa andare avanti. Ancora a crederci, ancora a sperare. In un domani migliore per tutti noi. Terremotati e non. Buona resurrezione a tutti. Resurrezione nella consapevolezza e nell'impegno civile. Solo ricostruendo noi stessi, possiamo sperare di ricostruire questa nazione terremotata.
giovedì 14 aprile 2011
Cazzomifrega
Il terremoto porta anche delle cose buone. Poche. Quali? Nel mio caso le nuove amicizie. E quelle ritrovate. Ho incontrato, o rincontrato, persone a me simili, quelle che decidono di reagire, di non lasciarsi andare, di lottare, di attivarsi per la città,di restare ad essa attaccati. Di amarla. Una di queste è Cristina Rosa: amica nuova, discreta, silenziosa. Entra sempre in punta di piedi: è timida, ma è una donna di grande spessore. Spesso sa farmi sorridere, con le sue battute sarcastiche e sempre al punto giusto. Cristina ha scritto una cosa che vi voglio proporre come post di oggi. Parla degli "altri", di quelli che questa città già l'hanno seppellita. Di quelli che se ne fregano. Quelli che lasciano fare e si adattano, cercando le scorciatoie. Quelli che, se fosse per loro, qui, potrebbero farci di tutto. E di più. Quelli che esistono dappertutto. Quelli che non cambiano le cose.
"Mi fa impressione. Se fosse stato per me non sarei tornato. Poi mi hanno dato la casetta. Cazzomifrega. C'è tutto nella casetta. A casa mia vado poco mi fa impressione. Non so quando la sistemeranno ho firmato la delega all'amministratore. Non vado alle riunioni fa tutto lui. In centro non vado la città è morta mi fa impressione. Mi viene da piangere. Potrebbe venirmi da piangere. Forse mi verrebbe da piangere. Sono stato una volta in piazza e avevo un nodo in gola. Avrei quasi pianto. Mi fa impressione. La città è morta non rinascerà o chissà quando. Spero che i miei figli se ne vadano. Con la liquidazione comprerò una casetta al mare. Ci sono tanti amici al mare. Qui non c'è nessuno non c'è niente che ci sto a fare. Appena possiamo andiamo via. Al mare. Ci sono tanti centri commerciali e poi andiamo a mangiare il pesce. Vado a trovare l'albergatore dell'anno scorso ci sono stato bene mi chiede come va e gli dico tutto apposto e daccordo la città non riparte ma che centra io sto nella casetta. Ho la macchina nuova. Dopo un anno in hotel capirai. Poi non paghiamo affitto e neppure bollette. Lasciali protestare non hanno altro da fare hanno tempo da perdere. Cosa pretendono i miracoli. Fanno pena. Ridicoli. Loro le carriole il tendone l'asilo occupato. Comunisti. Li conosco erano comunisti anche prima. Ma la casetta se la sono presa. Con tutto quello che c'è dentro. Certi no non l' hanno presa. Stupidi snob cosa si credono che gli rifanno la casa prima? Sì sono stato solo in piazza il centro non l'ho visto. L'ho visto al telegiornale. Mi fa impressione. Preferisco i centri commerciali, l'Aquilone il Globo. Porto i figli mangiamo qualcosa gli compro un gioco nuovo mia moglie va dal parrucchiere e poi a casa la casetta di berlusconi. Non sono andato neppure alla fiaccolata. Basta piangere bisogna guardare avanti magari andarsene. Mio cognato si è fatto la casetta di legno su un pezzo di terra adesso la sta facendo per la figlia ma con le fondamenta tanto chi gli dice un cazzo lo fanno tutti. Se mio cugino mi da la terra la faccio pure io. Abusiva come le altre. Per i figli non si sa mai. Se la potranno affittare agli studenti male che vada. Questo mio cugino ha una villa in campagna. Gliel'hanno classificata A ma aveva qualche crepa. Una crepa o due le altre le ha fatte lui. Gli hanno dato diecimila euro. Ha stuccato le crepe e si è fatto ridipingere la facciata. Lilla. La moglie l'ha voluta lilla. Io dicevo falla gialla è più allegra ma lì vicino c'è una casa rosa e la moglie ha detto meglio lilla che gialla ce l'hanno tutti.
Mia madre? Cazzo lo sai che sta male che me lo chiedi a fare. Sta lì in ospedale in geriatria. Io non ci vado non ho tempo mi fa impressione. Che se poi non mi riconosce mi viene da piangere. E se mi riconosce piange lei. Basta piangere. Non ne voglio parlare non voglio pensarci. La sua vita l'ha fatta ora io devo fare la mia.
Oggi è domenica andiamo a mangiare il pesce e poi al centro commerciale. Ormai mia moglie vuole solo quel parrucchiere e mentre i figli giocano alla pleistescion io guardo il culo delle commesse"
lunedì 11 aprile 2011
Di identità e comunità.

Dico e scrivo spesso della mia paura di sentirmi sopravvissuta per sempre. A vita. Nasce dal fatto che, dopo due anni, nulla è cambiato nel mio sentirmi tale. E noto che nulla è cambiato per le persone che mi circondano: famigliari, parenti, amici, conoscenti, concittadini che incontro casualmente. Abbiamo ancora il terremoto e la condizione che ne è seguita dentro le ossa, nella mente, nell'anima, in fondo al cuore. E in cima ai nostri pensieri. Prima di quel maledetto 6 aprile ero soprannominata, scherzosamente, in famiglia "la donna con la valigia". Sempre pronta a partire. Tornavo e programmavo una nuova partenza. Per lavoro, per diporto: ogni occasione era buona. Partivo felice, tornavo contenta di riabbracciare le mie mura: quelle della città, quelle di casa mia. Le montagne sempre ad aspettarmi. Rassicuranti. Ora, invece, non riesco proprio ad andare via da questo nulla. Vi resto attaccata tenacemente. Resto attaccata alle transenne che mi impediscono di entrare in casa mia, all'odore di muffa, di marcio, di desolazione che esce dai vicoli della mia vita. Al provvisorio delle tende che costituiscono ancora i nostri spazi di socialità. Al traffico impazzito. Al panorama cambiato,deturpato dalla mano dell'uomo. Alle brutte casette di legno sorte come funghi. Alle cupole sfondate, ai palazzi puntellati. Ai visi smarriti dei miei compagni, tanti, di sventura. Quando mi costringo, rarissimamente, ad inoltrarmi nella normalità degli altri, sto male. Non la voglio. Voglio il mio nulla. Le città mi lasciano tramortita. I visi degli abitanti di quelle città, le altre, mi gettano nello sconforto. La normalità mi destabilizza. Desidero di tornare a "casa mia". Al nulla, appunto. A quegli occhi che mi parlano, anche se muti. A quelle persone che hanno il mio stesso dolore, che vivono la mia stessa condizione. Scopro uno spirito di appartenenza che prima non conoscevo. Voglio solo questo, come se solo in questo io possa vivere. Nonostante tutto. Nonostante le piccolezze che noto in molti, come quelle in un incontro nel tendone della Piazza del Duomo, dove si sarebbero dovute coordinare le azioni dei cittadini responsabili, quelli che fra i miei concittadini dovrei sentire ancor più vicini, per il sì al voto referendario: ho visto volti cupi, astio, panche brandite come randelli, avversioni personali portate sul piatto comune, desiderio di immotivato protagonismo, giovani donne urlanti, alcuni mostrare insofferenza, altri ancora non accettare il pensiero altrui, favorendo la divisione, poiché non si riesce a fare come loro vorrebbero. Non si cercano punti comuni. Si cercano primati, si rivendicano paternità. Leggo sui giornali, su internet, cattiverie contro chi si attiva per la città, anche solo con una carriola. Si gettano ombre. Tutti in corsa, verso cosa? Le elezioni del prossimo anno? Ottima cosa che i cittadini responsabili provvedano a candidarsi, mi pare d'obbligo. E l'unica speranza. Ma questa guerra è sciocca e sa di vecchio, stantio e marcio. Un terremoto come il nostro avrebbe dovuto cambiare i rapporti fra disgraziati, rapporti che, invece, se possibile, sono peggiorati. Ebbene, per quanto mi riguarda, tranquillizzatevi, potete guardarmi con maggiore bonomia : non ho intenzione di candidarmi, né di mettere il bastone fra le ruote ad alcuno. Rispetto il lavoro di tutti. La lealtà è sempre stata per me una necessità assoluta, mi capita, però, di commettere l'errore di pretenderla anche dagli altri. Voterò in base al programma, come ho sempre fatto. Sperando che venga rispettato. A me interessa solo il bene di questa "comunità".
lunedì 4 aprile 2011
Il silenzio

Il blog è fermo da tempo. Troppo. Il silenzio è voluto. Voluto perché nulla c'è da raccontare. Se non piccole cose di piccoli uomini. Cose che fanno male, ma insignificanti per i più che non sono costretti a vivere il nostro quotidiano. Addirittura, ai più, incomprensibili. Voluto perché la mia vita, le nostre vite sono ancora sospese. Come due anni fa. Grava su di loro il peso di lunghi mesi di dolore che hanno visto spegnersi la speranza. Continuare a credere in se stessi e negli altri è diventato difficile. E allora ti senti solo, quando solo non dovresti sentirti, ché le sofferenze dovrebbero unire. Ho deciso di rompere il mio silenzio perché quella notte, stanotte, mi sembra ancor più vicina. Due anni che sono un soffio. Due anni che sembrano non essere trascorsi, perché è impossibile ricostruire te stessa nell'incertezza dell'immediato e nel buio del futuro. Senza radici, senza identità, ti chiedi se resterai così per sempre. Se, per sempre, sarai solo una sopravvissuta. Ti chiedi se tornerai ad avere dei desideri che non siano solo quelli di ricostruire una comunità che è, irrimediabilmente, morta. Sola, fra coloro che vivono il tuo stesso dolore. Dietro quelle transenne, la città morta. L'odore inconfondibile della morte.La popolazione sbandata, sfiduciata, sempre più disgregata, accetta la realtà che vede come ineluttabile. Si adatta, pur soffrendo. Cerca scorciatoie. Mentre il mondo intero, intorno, muta repentinamente i suoi scenari. E tu, con il tuo dolore, ti senti un granello. Fermo, mentre tutto, fuori dalle tue mura cadenti, cambia velocemente. Il blog cambia anch'esso: si occuperà solo di me. Di me parlerà. Ché questa comunità, per ora, all'inizio del terzo anno della nuova non vita, nella quale ha scelto di relegarsi, non merita di essere raccontata. E di nuovo il silenzio, per il lutto rinnovato, mi accoglie. Benevolo. Perché il silenzio spesso cura le ferite meglio di ogni parola.
mercoledì 23 febbraio 2011
La speranza che non c'è
Il catastrofico terremoto di Christchurch riporta immagini a noi Aquilani tristemente familiari. E le vittime, i dispersi, i feriti, i sopravvissuti, i loro volti, come quelli dei soccorritori, sono i nostri stessi volti. Il dolore è il medesimo. E per noi son trascorsi quasi due anni. Quel dolore non è mitigato dal tempo. E', addirittura, da esso rafforzato. Perché noi, per certo, abbiamo vissuto, e viviamo, un dopo terremoto che è, per alcuni versi, peggiore della catastrofe di quella notte. Due anni son tanti. Due anni sono stati niente per noi e per la nostra città. Perché la gestione del nostro post terremoto ci sta togliendo la speranza. E tutti sappiamo quanto la speranza sia necessaria per ricostruire le vite. La speranza può partire solo da qualche certezza, seppur minima. Ebbene, noi di certezze non ne abbiamo. Se qualcuno mi chiede una previsione di rientro a casa mia, non so proprio cosa rispondere. Dico dieci anni, forse venti. Perché nulla so. Vedo, però, che, a due anni, le macerie sono ancora lì. E non abbiamo individuato un sito di stoccaggio. Non sappiamo neanche esattamente quante tonnellate siano. Vedo che la città ed il suo territorio vanno avanti alla giornata, senza alcun piano o progetto generale. Si va avanti rabberciando di qua e di là, costruendo dell'abominevole provvisorio che tutti sanno sarà definitivo, proponendo ancora, a due anni, tende per giovani ed anziani. Ci muoviamo in mezzo al brutto, fra un centro commerciale e una casa dormitorio. E ci muoviamo male, senza mezzi di trasporto pubblici, in auto, sempre, in mezzo al traffico. Eppure la nostra città è bella, meravigliosa. E' bella anche profondamente ferita. Io piango, di fronte alla sua bellezza. E le ferite, quelle ferite, me la fanno amare ancor di più. Sono stati chiamati esperti, luminari, saggi. Abbiamo strutture che dovrebbero partorire idee. E fatti. Ma abbiamo il nulla. Solo la desolazione dell'immobilismo. E in pochi urliamo che la rivogliamo questa città. Sempre pochi, sempre meno. Ché la speranza, lo dicevo, sta finendo. E il terreno è pronto, e fertile. Per chi vuole speculare.
domenica 13 febbraio 2011
Adesso basta!





giovedì 10 febbraio 2011
Riabbracciamola, riabbracciamoci

E quindi si è ri-cominciato. E' duro, difficile. Penoso a volte. L'Assemblea cittadina non ha più una sede: i cittadini attivi, pur avendo più volte avanzato, e da mesi, la richiesta all'amministrazione, e avendo fatto presìdi e partecipato a snervanti colloqui con sindaco ed assessori, sono ancora raminghi, senza casa. Neanche quella comune. Neanche quel tendone, quello che tutti conoscono, quello con la scritta RIPRENDIAMOCI LA CITTA', che ha campeggiato sulla piazza del Duomo per quasi un anno. Concesso così a lungo da un generoso filantropo, è stato rimosso per ragioni sconosciute. E allora i cittadini attivi hanno dovuto reagire, per non soccombere ai voleri di un'amministrazione che solo a parole si mostra favorevole alla partecipazione, ma che, nella realtà dei fatti, la teme profondamente. E allora accade che una parte di cittadini, giustamente stanca delle troppe promesse disattese, occupi un asilo e vi stabilisca una sede dedicata principalmente ai giovani. E capita che un'altra parte di cittadini attivi, indica l'assemblea in una sala conferenze che è costretta a pagare di tasca propria. Pur avendo il Comune strutture agibili atte all'uopo. Le occupazioni sono sacrosante, soprattutto in un caso come il nostro, ma comportano denunce, conseguenze penali, spese legali. E non tutti sono disposti ad aggiungere ulteriori pene e preoccupazioni alle tante che hanno già sulle spalle. E allora ci si paga una sede.
mercoledì 26 gennaio 2011
Si ricomincia
martedì 11 gennaio 2011
Borghezio?

Tutti avrete sentito le esternazioni del leghista Borghezio a proposito degli Abruzzesi. Ebbene, non mi toccano. E non me la sento neanche di controbattere. Non è questa la pubblicità o la visibilità della quale abbiamo bisogno. Oggi abbiamo bisogno solo di fatti concreti. Dopo due anni di immobilismo. E scagliarsi contro chi ha già ampiamente dato dimostrazione della propria grossolana pochezza, e sprecare con lui energie e rabbia, non fa altro che allontanarci dagli obiettivi che dovremo prefiggerci. L'Aquila è ferma, bloccata, allo sbando. E questo dipende anche dai cittadini. Troppo rinunciatari, paurosi. Si adeguano. Ci hanno già ampiamente tacciati di essere ingrati e cialtroni. E lo hanno fatto sulla nostra terra. Sulle nostra pelle. Sul nostro dolore. Il governo dimostra con i fatti che, ormai, L'Aquila è un capitolo chiuso. I nostri stessi amministratori tacciano, vedi il presidente della Regione, nonché commissario alla ricostruzione, Gianni Chiodi , i cittadini che si attivano da volontari sul territorio quali sporadiche frange strumentalizzate. I nostri amministratori locali, nell'anniversario del 6 aprile dello scorso anno, in un consiglio comunale farsesco, al quale erano invitati personaggi del calibro di Alemanno e Polverini, hanno gridato a noi cittadini dimostranti di vergognarci, quando rumoreggiavamo al messaggio di Berlusconi. L'ex prefetto Gabrielli, ora da controllore a controllato, promosso sul campo a capo della protezione civile, ci ha chiamati cialtroni e ci ha denunciati. Cialtroni , da sempre, siamo per l'arcivescovo Molinari. Cialtroni per il neo vice commissario Cicchetti. Ci impediscono di avvicinarci alle nostre case. Ci ingabbiano in iter burocratici che, scientificamente, ci impediscono di ricostruire. Ci vietano la partecipazione, ci negano la trasparenza degli atti amministrativi. Siamo stati ostaggi mediatici di un governo che ha vigliaccamente speculato sulla nostra disgrazia. Mistificando la realtà che solo ora, a tratti e parzialmente, sta uscendo. Abbiamo visto arrivare per la prima volta all'Aquila i senatori del PD a luglio dello scorso anno.Per la prima volta, dopo quindici mesi dalla disgrazia,hanno visto con i loro occhi la nostra tragedia. Non la conosceva, disse l'onorevole Bersani, e si impegnò a raccogliere le firme per la nostra legge di iniziativa popolare. Non già di farsene carico, come sarebbe giusto. Ha comunque disatteso anche quella promessa. Promessa elettorale. Ci hanno preso a manganellate, a Roma, quando eravamo a manifestare pacificamente per i nostri diritti. Provano ad impedirci di partecipare ai consigli regionali e, una volta ammessi, veniamo trattati con sufficienza e disprezzo dal presidente del consesso, pescarese, abruzzese come noi, ed invitati, con disgusto e stizza, a lasciare l'aula. Ed ora dovremmo arrabbiarci per Borghezio? Dopo che ci hanno devastato un territorio, ci hanno inquinato l'aria, ci hanno dispersi, annientati. Soffocati. Ebbene, Aquilani, diamo un segno. Facciamo vedere che siamo vivi. Non pronti solo a ricevere, grande o piccolo che sia, il piacere personale nella campagna elettorale: una realtà già in pieno atto. Ché il piacere fatto ad uno è l'ingiustizia perpetrata a danno di tutti gli altri. Alziamo il capo. La dignità si dimostra anche non soccombendo. Si dimostra non chiudendosi nel proprio dolore. Si dimostra partecipando alla cosa pubblica. Che è nostra. Non pensando solo a noi stessi. Alziamo il capo e iniziamo a pretendere di essere attori nel risollevarci dalla nostra tragedia. Smettiamola di delegare.Alle amministrazioni inefficienti, o ai pochi cittadini attivi. Io so che le persone fiere ci sono. Non usciamo timidamente allo scoperto solo quando si parla di restituzione di tasse, ché la ricostruzione della nostra città e della nostra comunità è, per noi, la cosa più importante. L'Aquila è patrimonio nostro ed è patrimonio del mondo intero. Abbiamo il dovere di salvaguardarla.
mercoledì 5 gennaio 2011
Basta poco

E basta poco. Basta una vecchio bruciatore che si rompe, per l'ennesima volta, in una vecchia casa non tua, lontana dalla tua vita,e che ti fa piombare nel freddo che non dovrebbe farti paura. Ché lo conosci bene il freddo. E pure le sofferenze. Basta un articolo su L'Espresso: un giornale che parla della tua esistenza, e di quella dei tuoi compagni di sventura. Ne parla bene, dopo ventuno mesi. Ne parla come ne parli tu. Da ventuno mesi. Ma leggerlo, vederlo su quelle pagine patinate, scorrere le parole con lo sguardo velato, è toccare con mano quella tragedia che ti ostini a volere superare. E, a volte, non ci riesci. E allora un amico posta su facebook le vecchie immagini della strada più bella della tua città, la strada nella quale abitavi. Quella nella quale hai vissuto per cinquant'anni. Coperta di neve. E basta poco perché quelle lacrime, che pensavi di aver versato tutte, tornino come il primo giorno. Più salate, più amare. Ché nulla è cambiato. Tu sei solo molto più stanca.



