venerdì 29 ottobre 2010

L'autorità del Presidente Chiodi


Il Presidente della regione Abruzzo, Gianni Chiodi, qualche giorno fa ha esternato su facebook in merito all'autorità (http://www.ilcapoluogo.com/site/News2/Politica/Chiodi-Contro-il-pensiero-unico-sull-autorita). Gli ho risposto.

Egregio Presidente Chiodi, vorrei reagire alla Sua intemerata in favore dell’autorità, anzi dell’Autorità, non una qualità di cui si analizzi il senso e la portata, per comprendere a chi spetti, a chi debba essere riconosciuta e perché, ma una sorta di valore assoluto. A prescindere. Ho riletto la nostra bella Costituzione repubblicana: vi ho trovato i valori della dignità, dell’eguaglianza (art.3), della libertà (art.13,14,15,16 ecc), del rispetto della persona umana (art.32), ma non ho trovato il valore dell’autorità. La parola autorità, lì, non è mai usata da sola, ma come “autorità di pubblica sicurezza” (art.13), “autorità giudiziaria” (art.21) per definire una funzione pubblica.
Ho poi letto la più recente “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”,che ha valore giuridico da appena un anno, e anche lì ho trovato che i sei valori cui sono intitolati i capitoli nei quali la Carta è suddivisa sono: dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. Non si parla dell’autorità. Eppure non sono affatto ignorati i doveri. Anzi, si afferma che il godimento dei diritti previsti “fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”.
Il potere di per sé non è buono. Da Montesquieu in poi abbiamo imparato che deve essere diviso, controllato, soggetto alla legge.
L’autorità si conquista con l’autorevolezza. Se imposta forzatamente, è mero autoritarismo.
L’ordine senza aggettivi non è un valore. L’ordine regna anche nei cimiteri. E nei gulag.
L’obbedienza di per sé non è una virtù. Il dovere di disobbedire agli ordini ingiusti è una delle conquiste della nostra civiltà giuridica, frutto della profonda “rivoluzione dei diritti umani” che, a partire dal secondo dopoguerra, ha segnato una svolta nella comunità internazionale. Dopo gli orrori della guerra e dell’olocausto. Questo dovere di disobbedienza non ha nulla a che vedere col “nichilismo ottundente” o il “relativismo esangue”. Anzi, richiede un sovrappiù di coraggio e di responsabilità di cui si vedono oggi assai pochi esempi, e non certo per colpa del ’68.
E’ davvero azzardato sostenere che la “crisi etica” della società italiana nasca dalla “svalutazione dell’autorità”, quando sono del tutto evidenti ben altre cause. Dalla corruzione, per cui l’Italia vanta un triste primato, alla collusione fra poteri pubblici (le “autorità”, appunto) e le mafie; dall'accaparramento di vantaggi personali da parte di coloro che dovrebbero rappresentare la Nazione, od essere “al servizio esclusivo della Nazione”,ai conflitti di interesse. Sino alla trasformazione in merce e all’umiliante esibizione mediatica del corpo femminile, per dirne solo alcune. Da qui, nasce una cattiva democrazia che esprime istituzioni prevalentemente prive di minimo etico. Estranee ad ogni istanza egalitaria. Una cattiva democrazia non riscuote rispetto per le autorità semplicemente perché non lo merita.
Forse lei dimentica che la nostra storia non comincia, né finisce con il 1968, con i suoi pregi e i suoi difetti. C’è un lungo prima e un consistente dopo. Un prima di riscatto da regimi dittatoriali (e “autoritari”, appunto) e un dopo segnato da Tangentopoli.
E’ giustissimo pretendere il rispetto per chi esercita legittimamente una funzione pubblica. Dai professori ai poliziotti. Ma, appunto, “legittimamente”. Ed è purtroppo vero che molti danni hanno fatto gli egoismi di un individualismo proprietario, le chiusure e le paure di un Paese che ha perso il rispetto per se stesso e smarrito i valori delle lotte combattute per riscattarsi sia dal passato fascista, che dalla povertà e dallo sfruttamento. Fra questi il valore della solidarietà e l’importanza della conoscenza e della cultura. E’ così che cattivi genitori, aiutati dai pessimi esempi pubblici, non sanno più trasmettere ai propri figli il gusto della propria storia, della conoscenza scientifica, della bellezza dell’arte e della letteratura, il rispetto per chi lavora per loro nella scuola. Ma tutto questo non si supera invocando l’autorità, l’ordine, il potere.
Occorre un’autorità moralmente credibile. Un ordine fondato sulla giustizia. Un potere controllato e responsabile.
E’ vero che dall’assenza di regole a guadagnarci sono i forti e i furbi, mentre a perderci sono i deboli e gli onesti. Ma l’esistenza di regole che proteggano efficacemente i deboli e gli onesti si chiama diritto, si chiama giustizia. Dove regnano diritto e giustizia, dove è diffusa l’obbedienza a leggi costituzionalmente legittime, coloro che esercitano funzioni pubbliche (le “autorità”) sono rispettati e la legittima repressione contro le violazioni dell’ordine democratico non suscita rivolte condivise.
L’obiettivo da perseguire è la ricerca costante dell’attuazione dei valori di dignità, libertà, eguaglianza e solidarietà.Non quello dell’affermazione di un ordine purchessia. E di un’autorità fine a se stessa.
Non è l'autorità che fa libera una democrazia. E' la libertà che deriva dall'eguaglianza praticata. Libertà che è partecipazione alla cosa pubblica. Non già come obbedienti sudditi, ma come cittadini consapevoli.

Distinti saluti.
Anna Pacifica Colasacco
(cittadina dell'assemblea di piazza Duomo all'Aquila)

mercoledì 27 ottobre 2010

Meglio tardi che mai

Mi è difficile scrivere. Per svariati motivi. Il primo è che non posso dare buone notizie. Sono diciannove mesi che non riesco a darne. Neanche una piccola. Anche se mi sforzo di trovarne.
Una ce ne sarebbe, ma forse è una falsa buona notizia.
I cinque saggi, chiamati dalla struttura tecnica di missione che dovrebbe occuparsi di stilare un piano di ricostruzione per la città, hanno fornito una prima relazione che riguarda le azioni da compiere a breve termine. Ebbene, il sociologo, l'economista, l'urbanista, persino gli uomini di Confindustria, tutti di acclarata fama, mettono nero su bianco quanto noi cittadini attivi andiamo ripetendo da mesi e mesi. E dicono cose di buon senso (strano, vero?), le dicono dopo diciannove mesi, e son cose che parlano di progettazione partecipata, di democrazia partecipativa. Scrive il sociologo Aldo Bonomi :"la progettazione non partecipata, anche quando tecnicamente efficace, genera quasi sempre un deficit di trasparenza e, nei casi più deteriori,peraltro frequenti nella storia del nostro paese,logiche opportunistiche e l'uso distorto delle risorse. L'approccio metodologico proposto, viceversa, si fonda sull'ipotesi per la quale solo un adeguato grado di mobilitazione della società locale e il suo riconoscimento come soggetto protagonista del processo di ricostruzione può combinare efficacemente qualità tecnica ed equità di efficienza e controllo democratico". Ci voleva il grande saggio per dirlo. Dopo diciannove mesi.Non so se Berlusconi e Bertolaso leggeranno mai il documento. Dovessero farlo, penseranno che il dottor Bonomi è un disfattista comunista. Così come l'economista Paolo Leon che afferma che i centri storici sono un bene unico, per i significati simbolici che portano in sé. "Un bene che appartiene alla collettività, locale, nazionale, planetaria,aldilà dell'interesse o dell'utilità dei singoli" , conferma l'urbanista Lampugnani che parla di regole, trasparenza, controllo. Che parla di ricostruzione che si paga da sola, poiché favorisce l'imprenditorialità locale e, in seconda istanza, attrae investimenti esterni. E noi lo gridiamo, inascoltati, da mesi. Non perché siamo particolarmente saggi, ma perché è l'unica analisi che si può fare.E ci hanno sfibrati, non prendendo in considerazione proposta alcuna. Primo fra tutti il Comune, che ancora non ci garantisce neanche un luogo dove incontrarci, dove esercitare la partecipazione tanto sbandierata dai saggi . E la Regione, e su, fino a giungere al Re Sole Bertolaso , alter ego dell'altro Re Sole, che ha fatto di noi carne da macello. Quindi non è una buona notizia, ma è una cosa che ti fa solo arrabbiare, ché troppo tempo si è perso. Ché mi sento presa per i fondelli. Anche dai cinque saggi che, dopo diciannove mesi, non dicono nulla di nuovo. Solo aria fritta. Per continuare a perdere tempo. Noi vogliamo i progetti. E le idee per la nostra città. Idee che neanche i grandi consiglieri hanno ancora.


martedì 19 ottobre 2010

Non si può più aspettare



Tante le cose che vorrei raccontarvi, ma tutte riconducono ad un'unica, cruda, realtà: L'Aquila è ferma. E i problemi, col passare del tempo, si moltiplicano ed ingigantiscono. La qualità della vita è desolante. I cittadini, coraggiosi, son tornati sulla loro terra. Ma manca la città. Viviamo un non luogo dove la civitas ha lasciato il posto agli agglomerati diffusi di realtà ghettizzanti,che già mostrano evidenti segni di deterioramento, al traffico impazzito che si snoda verso il nulla, all'inefficienza dei trasporti pubblici. Alle persone disorientate e stanche che, in massima parte, hanno trovato alloggi di fortuna. Distanti gli uni dagli altri.La vita quotidiana appare una guerra. Persa in partenza. Non esistono luoghi dove incontrarsi. E' impossibile coltivare i rapporti umani. Il centro della città antica è sempre più solo. E interdetto. Piazze e vie ingombre di macerie. E ancora militari, a presidiare. Gli Aquilani sono sfiduciati. Nessuna certezza per noi. Neanche lontana. E i cittadini attivi sono dispersi. Il centro del capoluogo di regione non ha neanche più una tenda per favorire le riunioni della cittadinanza, i confronti di idee, la socializzazione. Il Comune nicchia. Alla vibrata richiesta, risponde che la tenda devono procurarsela i cittadini. Autofinanziandola. Cittadini senza più casa, né vita.
E noi ci siam persi per cercare di fornire soluzioni a chi queste soluzioni non vuole trovarle. E, soprattutto, non vuole trovarle con noi. Ad arrovellarci su leggi e piattaforme propositive. Quando le nostre dovrebbero essere solo rivendicazioni. Che nascono dal constatare i nostri bisogni. Dovremmo esercitare il diritto di rivendicare una vita decente e, soprattutto, chiarezza e trasparenza su ciò che si sta decidendo sulle nostre teste. E il diritto al lavoro, pretendendo misure immediate che rilancino l'attività economica e produttiva al collasso. Il diritto a ricostruire le nostre case. Con fondi certi. Non con la finanza creativa che promette e, nella realtà, non dà.Siamo stanchi dei continui rimpalli di competenze. Pretendiamo un progetto per la nostra città che, dopo diciannove mesi, ancora non c'è. Per darci speranza, anche a lungo termine. Ed una ragione per restare. Siamo stanchi di stare a guardare. E, soprattutto, stanchi di non essere presi in considerazione. Bisogna tornare a pretendere di riaprire la nostra città. Le soluzioni le trovi chi è pagato profumatamente, da noi, per farlo. Ci servono risposte. E concretezza. Non si può più aspettare.

domenica 17 ottobre 2010

Apro la porta

Apro la porta ed entro. Piano. Ho lasciato questo luogo troppo solo. E troppo a lungo. Eppure l'ho amato. E lo amo ancora. Tanto. Mi siedo ed accendo la luce. Mi guardo intorno e tocco il mio dolore e la fatica del mio vivere. Tocco la rabbia. E la disperazione. E la stanchezza. E la voglia di andare avanti. Tocco gli alti ed i bassi del mio umore. E quello che ho tirato fuori, mettendomi a nudo, in questi giorni, e mesi, di vita estrema. Tocco me stessa. E l'affetto di tanti. L'insofferenza di pochi.
Guardo fuori ed è notte. E freddo. Qui è caldo. E questa è la mia casa. Quella che avevo "prima". E la stessa che ho ora. E che ritrovo.Questo luogo mi ha aiutata a sopravvivere. Mi ha dato una speranza. E la forza. Ha dato corpo ai miei pensieri. E alle mie ragioni. Mi ha fatto piangere. Gridare. E mi ha chetata. Mi ha fatto sentire meno sola e spaventata. Mi ha fatto raccontare, spiegare, interloquire.
Vivere.
Il blog riapre.
Ed io ricomincio a scrivere.

P.S. Mi rendo conto, dai messaggi privati che ricevo, di aver generato, con questo post, un equivoco: non sono assolutamente tornata a vivere nella mia casa che si trova in zona rossa ed è inaccessibile e versa in condizioni di gran lunga peggiori di quelle in cui era il 6 aprile dello scorso anno. La casa cui faccio cenno, l'unica che sento mia e che è la stessa da quattro anni, è questo blog.